Il mitico Continente Scomparso
Atlantide è sempre stato descritto come il più grande enigma della storia. Il primo a parlare di questa gigantesca isola nel mezzo dell’oceano Atlantico, svanita dal giorno alla notte sotto le acque, fu il filosofo greco Platone.
Su Rupzo siamo soliti parlare di misteri, e per questo che tra i primi che affronteremo ci sarà quello di Atlantide.
Il suo racconto, distribuito in parte nel Timeo e in parte nel Crizia, è così affascinante da possedere tutti i connotati di un’opera di fantascienza. Platone pone il racconto sulle labbra del poeta e storico Crizia, il quale riferisce di come Solone, il celebre legislatore ateniese, giunto nel 590 a.C. a Sais in Egitto, avesse appreso di Atlantide dal racconto di un prete egiziano.
Stando all’uomo, Atlantide aveva già raggiunto una florida civiltà quando Atene era stata appena fondata, vale a dire attorno al 9600 a.C. Si trattava di «una grande potenza che aveva esercitato la sua forza sia in Europa che in Asia e che era stata vinta soltanto da Atene». Atlantide, aveva rivelato il prete, «si trovava al di là delle Colonne d’Ercole» (lo Stretto di Gibilterra) ed era estesa come la Libia e l’Asia messe insieme. Era un «impero grande e meraviglioso» che aveva conquistato la Libia e l’Europa fino alla Tirrenia (la regione dell’Etruria, nell’Italia centrale). Abbandonati da tutti gli alleati, gli Ateniesi erano rimasti soli a combattere contro lo strapotere di Atlantide, ma alla fine avevano avuto la meglio.
A questo punto però violentissimi terremoti e maremoti avevano dilaniato l’isola, distruggendo sia Ateniesi che Atlantidei e l’isola era sprofondata nell’oceano nel breve volgere di un giorno e una notte.
Nel secondo dialogo (Crizia) Platone offre ulteriori dettagli in merito alla storia e alla geografia del continente scomparso. Racconta come Atlantide venne fondata da Poseidone (il Nettuno latino), il grande dio del mare, che aveva dato origine alla razza degli Atlantidei facendo generare dieci figli da una donna di nome Cleito. Gli Atlantidei erano abili ingegneri e architetti, costruttori di palazzi, porti, templi e depositi; la città capitale era stata eretta
sulla cima di un monte ed era circondata da cerchi concentrici alternati di canali d’acqua e strisce di terra fra loro unite da passaggi così grandi da consentire il transito delle navi. Il diametro della città raggiungeva le 11 miglia antiche. Un gigantesco canale, largo 90 m e profondo oltre 30, aveva il compito di collegare il vasto reticolo di canali e il mare aperto. Al di là della città si ergeva una sterminata pianura coltivabile (230 × 340 miglia antiche), che costituiva il granaio dell’isola. Oltre alla piana si trovavano molte amene città e villaggi, ricchi di vegetazione e di pascoli abbondanti. Platone prosegue nella descrizione della città, suggerendo l’idea che o gli venne raccontata proprio così, nei minimi dettagli, oppure che siamo di fronte a un narratore di grandi capacità immaginative. Il lungo racconto in cui si tratteggiano magnifici palazzi dotati di fontane con acqua calda e fredda, grandi sale da pranzo comuni con pareti tappezzate e incrostate con pietre preziose, ha ammaliato milioni di lettori per migliaia di anni.
Purtroppo però, narra Crizia, ad un certo momento Atlantide dimenticò la saggezza e la virtù che gli erano state donate dagli dèi e si fece arcigna, gretta, corrotta. Zeus, allora, decise che le avrebbe impartito una lezione. Chiamò a raccolta l’Olimpo…
A questo punto, verrebbe da dire proprio sul più bello, il racconto di Platone si interrompe. Non solo non completò mai il Crizia, ma neppure diede mano al terzo preannunciato dialogo, Ermocrate, che avrebbe dovuto completare la trilogia di Atlantide. Ciò malgrado, non occorre tanta fantasia per intuire che il verdetto divino fu la condanna finale della potente civiltà.
Dopo Platone, la maggior parte dei commentatori e dei letterati prese a sostenere che la storia di Atlantide era da intendersi come nient’altro che un mito, oppure alla stregua di una allegoria politica: lo stesso Aristotele, allievo di Platone, era propenso verso questa ipotesi. Ma, a dircela tutta, la cosa sembra alquanto improbabile. Il Timeo, il primo dialogo in cui si introduce l’argomento, è uno dei suoi lavori più ambiziosi, tanto che uno dei traduttori, il Jowett, afferma: «Si tratta del più generoso sforzo compiuto da mente umana di concepire il mondo, come solo questo straordinario genio del passato avrebbe potuto proporci». Sembrerebbe pertanto incomprensibile in un simile contesto l’inserimento di una storiella senza costrutto. Pare ben più logico immaginare che l’abbia fatto per conservare il ricordo dell’isola scomparsa e tramandarne notizia alle generazioni future.
Per oltre duemila anni la storia di Atlantide è rimasta chiusa a sonnecchiare nelle belle pagine di Platone. Ma alla fine del XIX secolo un
congressista americano di nome Ignatius Donnelly ne restò folgorato, tanto da dedicargli un libro intitolato Atlantis, the Antediluvian World (1882), che divenne in breve tempo un best-seller continuamente ristampato. Ancora oggi, a più di un secolo di distanza, siamo di fronte a un’opera che non soffre il tempo. Donnelly si domanda se Platone ricordi una vera catastrofe e propende per il sì. D’altra parte, terremoti ed eruzioni vulcaniche dei tempi moderni hanno mostrato quale sconquasso possano causare. L’Australia, per esempio, è l’ultima parte ancora visibile di un immenso blocco continentale che andava dall’Africa al Pacifico, una terra che gli scienziati hanno chiamato Lemuria. (Il nome Lemuria venne proposto dallo zoologo L.P. Sclaver, il quale notando che le scimmie lemuri si trovavano sia in Africa che nel Madagascar suggerì l’esistenza di una grande massa continentale che in tempi antichissimi fungeva da ponte fra di loro).
Donnelly studiò anche le leggende legate al diluvio dall’Egitto al Messico, mettendo in risalto le grandi somiglianze e segnalando, con sottile acume, le affinità dei manufatti rintracciati sulle due opposte coste dell’Atlantico. Notò inoltre che proprio nel mezzo dell’oceano esiste un alto crinale con le Isole Azzorre che potrebbero intendersi come sommità di una immensa isola sottomarina. Nell’opera, Donnelly rivela una conoscenza di geografia, geologia, storia dei popoli e linguistica davvero impressionante, enciclopedica. Al punto che il primo ministro inglese dell’epoca, Gladstone, arrivò a proporre – senza successo – al governo britannico l’allestimento di una nave di ricerca per una spedizione alla scoperta di Atlantide.
Scrivendo, la bellezza di circa 70 anni dopo, nel suo libro Il mito di Atlantide e i continenti scomparsi, l’autore americano L. Sprague de Camp commentava la teoria con queste parole: «Per essere sinceri, dobbiamo dire che la maggior parte delle affermazioni contenute nel libro di Donnelly erano inesatte già al tempo della loro concezione, oppure furono sistematicamente smentite da successive scoperte». E prosegue sottolineando: «Non è vero che i nativi peruviani possedevano una forma di scrittura, che le piante di cotone del Nuovo Continente appartengono alla stessa specie di quelle del Vecchio, che la civiltà egizia esplose come fiorita all’improvviso dal nulla, oppure che Annibale seppe conquistare il mondo anche grazie all’uso della polvere da sparo…». Con una critica serrata, Sprague de Camp dimostrò che in realtà la tanto decantata preparazione di Donnelly era più apparente che concreta e che tutto ciò che aveva affermato poteva essere messo in discussione. Ciò non toglie, comunque, che le quasi
500 pagine del suo celebre libro non continuino ancora oggi ad affascinare il lettore.
Cinque anni prima della pubblicazione del libro di Donnelly, il tema di Atlantide era già stato ampiamente discusso in un’opera gigantesca in due volumi dal titolo Iside svelata a firma della “occultista” di origine russa Helena Blavatsky, la quale sosteneva di aver redatto l’intero manoscritto di quasi 1500 pagine sotto dettatura medianica per il tramite della cosiddetta scrittura automatica.
Lo spazio dedicato ad Atlantide è però ridottissimo e occupa una sola pagina del primo volume. Vi si spiega che gli Atlantidei erano la quarta razza della Terra e che ciascuno di loro era medium per predisposizione naturale. Avendo ottenuto questa formidabile conoscenza senza fatica, la gente di Atlantide venne facilmente manipolata da «un grande e invisibile dragone», il perfido re Thevetat, che corruppe l’intera nazione trasformandola in «una nazione di maghi cattivi». La guerra intestina scoppiata fra loro per la gestione del potere portò alla distruzione del continente…
In breve Iside svelata divenne un grande successo editoriale, rendendo la Blavatsky nota in ogni angolo del mondo, tanto che decise di trasferirsi dall’India a New York, dove fondò la Società teosofica. Dopo alterne vicende, fra cui uno smascheramento pubblico che la additò al mondo come persona in mala fede, la veggente raggiunse Londra dove nel 1891 morì colpita dal morbo di Bright. Dietro di sé aveva però lasciato un altro voluminoso lavoro, se mai è possibile, ancora più confusionario e articolato del primo: La dottrina segreta. Si tratta di un commento a un’opera intitolata Le stanze di Dzyan, che la Blavatsky sosteneva fosse stata scritta in Atlantide nella lingua senzar e dove si racconta che la razza umana non è stata la prima ad abitare il pianeta Terra.
La prima “razza madre” consisteva infatti in esseri invisibili fatti di nebbia infuocata; la seconda si era stanziata nel nord dell’Asia; la terza nel continente perduto di Lemuria o Mu nell’oceano Indiano ed era costituita da esseri scimmieschi di grandi dimensioni, privi però del raziocinio. La quarta razza era stata, per l’appunto, quella degli Atlantidei, i quali avevano raggiunto un altissimo grado di civiltà e sviluppo, ma si erano autodistrutti a causa di terribili guerre intestine condotte da potentissimi maghi. L’umanità presente era la quinta “razza madre”, caratterizzata dall’estrema “fisicità” dei suoi rappresentanti. La sesta e la settima razza che prenderanno il nostro posto saranno decisamente più eteree di come siamo noi oggi. Secondo la
Blavatsky rutta la conoscenza passata del mondo e di tutti i popoli non è andata perduta ma è stata registrata nell’etere psichico, uno strato di realtà detto Akasa e queste registrazioni sono dette ricordi akasici. Secondo la sua teoria, furono alcuni Atlantidei scampati alla distruzione del loro mondo a dare impulso alla civiltà egizia e alla costruzione delle grandi piramidi circa centomila anni or sono. (I moderni archeologi tendono a datare le piramidi attorno al 2500 a.C.).
Quando La dottrina segreta uscì, il libro di Donnelly aveva già monopolizzato l’attenzione sul mistero di Atlantide. Ecco allora venire alla ribalta un membro emerito della Società teosofica londinese, W. Scott- Elliot, autore di un altro libro di successo intitolato Storia di Atlantide (1896). La popolarità di Scott-Elliot salì alle stelle quando si seppe che proclamava di essere capace di attingere ai ricordi akasici. Fra le tante affermazioni, disse che la civiltà atlantidea risaliva a un milione di anni prima. Esistevano sette sottorazze. Una di queste, i Toltechi, avevano conquistato l’intero continente e innalzato una splendente città, proprio quella descritta da Platone. Da un gruppo di grandi iniziati atlantidei si era staccata una colonia che, raggiunto l’Egitto, aveva dato origine alle regali dinastie, mentre altri avevano provveduto alla realizzazione del sito di Stonehenge, in Inghilterra.
Sempre utilizzando il serbatoio cosmico della memoria akasica, Scott- Elliot pubblicò un secondo libro sul continente perduto di Lemuria. Le sue due opere unitamente a quelle della Blavatsky sono tutt’oggi considerate le scritture di fondamento della Società teosofica.
Uscita di scena la Blavatsky, il teosofo più eminente fu l’austriaco Rudolf Steiner, il quale, entrato in collisione con il gruppo dei teosofi inglesi, aveva deciso di dare vita per proprio conto a una sua “filosofia occulta”, meglio nota come Antroposofia. Nel 1904, subito dopo la rottura, Steiner pubblicò un libro dal titolo From the Akashic Records (akashic è un altro modo di indicare la stessa parola) in cui si parla di Atlantide e Lemuria.
Sarebbe facilissimo liquidare tutte le sue affermazioni come il sogno di un lunatico, se non fosse che, come accade per tutte le sue opere, anche in queste pagine il lettore sembra avvertire una forte componente di autenticità di base. Steiner ragiona sul metro dell’evoluzione dei mondi e, stando a questo schema, il processo evolutivo farebbe capo a esseri superiori. La spinta fondamentale di tale processo è la conquista della materia da parte dello spirito del mondo. In principio l’uomo aveva iniziato la sua avventura come
un essere completamente evanescente, per poi, poco alla volta, solidificarsi sempre più. Solo che in questo processo di progressivo ispessimento egli è purtroppo divenuto schiavo della materia. Dopo essere transitato attraverso altri tre stati differenti, l’uomo sarebbe quindi rinato sull’attuale Terra, fornito di un corpo poco più denso di una nube di vapore. Col trascorrere del tempo l’umanità si sarebbe evoluta nella “terza razza madre” (quella dei Lemuriani), capace di dominare la telepatia e di fare uso diretto del potere della volontà. Fu in questo periodo che paure, malattie e sofferenze entrarono a far parte della nostra vita. Poi era venuta l’epoca di Atlantide, nella quale l’umanità era capace di controllare le forze naturali incanalandole come flussi di energia controllata. Non era in grado di ragionare, ma possedeva una memoria strepitosa.
Ma potenti forze negative – che Steiner identifica in Ahriman – spinsero l’uomo verso la scienza, trasformandolo in un essere gretto e meschino, egoista e corrotto. Il cattivo uso di formidabili energie distruttive condusse alla fine di Atlantide… Diversamente dalla Blavatsky, Steiner data l’avvenimento attorno all’8000 a.C., cosa che, per lo meno, lo colloca nel reame delle possibilità logiche. (Certo, stando alle indicazioni della ricerca archeologica ufficiale, saremmo in un’epoca in cui stanno facendo a mala pena la loro comparsa i primi agricoltori organizzati; tuttavia, se si può concedere credito ad alcune mappe geografiche, quelle conosciute come appartenute agli “antichi re del mare”, in quella data sulla Terra dovevano già certamente esistere delle grandi civiltà progredite (vedi, in merito, il Capitolo 56).
Quando il concetto che la distruzione di Atlantide era stata provocata dalla terribile lotta fratricida delle forze del male si era consolidato, sulla scena era comparso un altro protagonista. Lewis Spence, scozzese, si era occupato a lungo, seppure in modo amatoriale, di studi sulle mitologie degli antichi popoli di Babilonia, Egitto, Messico e America centrale. Il suo libro Problem of Atlantis comparve nel 1924 e, al pari di quello di Donnelly, incontrò uno strepitoso successo. Spence sosteneva essere disponibili ampie prove geologiche dell’esistenza, nel tardo Miocene (da 10 a 25 milioni di anni fa), di un vasto continente nella regione atlantica. L’isola continentale si era quindi disgregata in tanti arcipelaghi di isole più piccole. I due più consistenti erano rimasti nell’oceano, ma a ridosso del Mediterraneo. La parte più orientale del continente, intanto, aveva continuato a sbriciolarsi e proprio attorno a 10.000 anni fa, l’epoca grosso modo segnalata da Platone, era del tutto scomparsa. Viceversa, a occidente, l’altro segmento del
continente – le Antille – non era sparito del tutto e resta ancora oggi in piccoli frammenti, ben visibile. Per Spence l’uomo antico non era affatto un bravo navigatore (il professor Hapgood non sarebbe certo d’accordo) e fu per questo che gli scampati di Atlantide avrebbero trovato rifugio nelle isole più prossime, rimaste intoccate dalla catastrofe. Analizzando con attenzione le coste sud-occidentali della Francia, del nord della Spagna e del Golfo di Biscaglia, Spence ricava le prove secondo le quali le tre primitive razze – Cro-Magnon, Caspi e Aziliani – sarebbero tutte giunte da occidente. I Cro- Magnon attorno a 25.000 anni or sono, per soppiantare i Neanderthaliani. (Alcuni studiosi della preistoria anticipano l’avvento della sostituzione delle razze di almeno altri 10.000 anni ancora prima). Le razze dei Caspi e degli Aziliani vennero 15.000 anni dopo. Siccome questi ultimi erano noti come abili marinai e esperti pescatori, Spence ne deduce che la lingua di terra che ancora collegava Atlantide all’Europa non doveva più esistere.
Secondo Spece furono gli Aziliani a fondare le civiltà d’Egitto e di Creta. Altri profughi di Atlantide riuscirono a riparare alle Antille, occupandole fino all’avvento dell’era cristiana. Dalla loro fuga nacque il popolo dei Maya. (L’identificazione fra gli eredi di Atlantide e il popolo dei Maya è uno dei tanti temi ricorrenti di questa saga). Una delle teorie più singolari proposte da Spence a proposito dei suicidi collettivi dei lemmings – quei piccoli roditori simili a topi che si vedono a volte gettarsi in massa nelle acque dell’oceano suicidandosi senza alcun apparente motivo – giustifica questo loro comportamento col desiderio istintuale, mai sopito, di raggiungere la loro terra d’origine, l’Atlantide. Oggi abbiamo scoperto che il motivo è tutt’altro e che risponde a una precisa legge demografica secondo un comportamento che è comune a molte altre specie di animali – senza scordare che il suicidio collettivo non è la prassi comunemente adottata – che consiste invece nello sparpagliarsi in territori sempre più vasti quando la concentrazione degli elementi presenti in un dato habitat si è fatta pressoché intollerabile.
Ma le obiezioni all’ipotesi di Spence sono numerose. Egli afferma che le culture d’Egitto, Creta e del Sudamerica esplosero come per magia dal nulla. L’archeologia ha dimostrato che non è stato così e che il loro fu un progressivo movimento verso la civiltà, iniziato con forme primitive. Malgrado tutto, nella prima trilogia che Spence pubblicò – al primo già citato volume seguirono, infatti, Atlantis in America e The History of Atlantis – i lati interessanti e gli spunti affascinanti non sono certamente
pochi, anzi molti meritano di essere valutati con grande serietà. Lo stesso non può dirsi dei due successivi libri: Will Europe Follow Atlantis?, in cui ci si domanda se il mondo moderno non stia forse scivolando nell’abiezione, proprio come millenni prima era capitato ad Atlantide (non dimentichiamo che Hitler era alle porte) e The Occult Science in Atlantis, opere nelle quali, come si suol dire, Spence tenta di costruire mattoni senza la paglia («Il lettore tenga bene a mente che qui stiamo soltanto affrontando la questione dell’alchimia ad Atlantide…»). Fatte tutte queste precisazioni, Spence resta comunque il più interessante e credibile autore che abbia scritto su Atlantide e anche il suo ultimo libro Problem of Lemuria mostra lo stesso approccio attento e colto, per quanto le tante citazioni lo appesantiscano non poco.
Spence diede consigli a Conan Doyle per la stesura del suo racconto su Atlantide The Maracot Deep e si mantenne a lungo in contatto epistolare con l’esploratore colonnello Percy H. Fawcett, il quale era convinto che il Brasile un tempo avesse fatto parte dell’Atlantide, ipotesi utilizzata da Doyle nel suo The Lost World. A proposito di Fawcett, ricordiamo che lo scrittore Rider Haggard gli presentò un giorno una pietra in basalto che presentava alcune singolari incisioni e i tratti di un’effigie. Poiché anche gli esperti del British Museum non erano in grado di esprimere alcun parere, Fawcett aveva pensato di consegnare il reperto a uno psicometra (la psicometria è quella capacità che consente di “leggere” la storia di un oggetto semplicemente tenendolo nelle mani o toccandolo). Sebbene il sensitivo non avesse alcuno spunto a cui aggrapparsi e pur senza conoscere Fawcett, ebbe lo stesso modo di dire: «Vedo un grande continente dalla sagoma irregolare che si estende dalla costa settentrionale dell’Africa fin verso l’America del Sud.
È costellato da numerose montagne e qua e là punteggiato da grandi vulcani attivi… Sul lato africano, il continente presenta una popolazione sparsa. Si tratta di esseri dalle belle forme, ma appartenenti a una razza non classificata, sono scuri ma non possono definirsi negroidi. Le loro caratteristiche fisiche più evidenti sono gli alti zigomi sporgenti e gli occhi vivaci e brillanti. Da quel che sento la loro moralità lascia alquanto a desiderare e la loro religione è affine alla demonologia…».
Invece sul fronte occidentale gli abitanti del continente sono «di gran lunga superiori agli altri. Il territorio è montagnoso e sui declivi delle colline sono ricavati grandiosi templi, muniti di belle facciate sorrette da
alte colonne scanalate… Dentro ai templi non c’è luce, è buio, ma sugli altari scorgo la raffigurazione di un grande occhio. I sacerdoti sono intenti a invocare questo occhio e il loro rito sembra possedere una natura occulta e sacrificale… Collocati in varie parti di questi templi si trovano oggetti simili a quello che stringo ora nelle mie mani e l’effigie che vi è riprodotta credo che sia quella di uno dei grandi sacerdoti».
Il medium aveva poi predetto che quel particolare oggetto prima o poi sarebbe finito nella mani di un uomo reincarnazione dell’antico sacerdote e grazie a questo rinnovato incontro «molte cose ora dimenticate sarebbero tornate alla luce e finalmente chiarite». «Nelle città della parte occidentale del grande continente viveva un gran numero di individui suddivisi in tre classi sociali: quella dominante, che comprendeva una monarchia ereditaria, una intermedia, una sorta di borghesia, e da ultima quella dei reietti e degli schiavi. Questo popolo era il vero, solo e unico dominatore del mondo, anche perché molti erano i gruppi sciamanici progrediti in grado di mettere in pratica le arti magiche con strabiliante abilità».
Il medium aveva descritto come la boriosa spocchia di ritenersi i padroni del mondo aveva portato questa gente ad un alto grado di presunzione e, puntuale, il castigo divino era disceso dal cielo; maremoti e spaventevoli eruzioni vulcaniche avevano flagellato il continente fino a farlo inabissare nell’oceano. «Non so datare in modo preciso il tempo in cui tutto ciò accadde – aveva detto il medium – ma fu certamente molto prima degli albori della civiltà egizia e tutto è stato dimenticato, trasformandosi in mito».
Dopo questa sconvolgente esperienza, Fawcett era diventato un fervente sostenitore della realtà di Atlantide, convincendosi sempre più che grazie alle sue ricerche sarebbe venuto in possesso di prove schiaccianti, se solo avesse scandagliato le impenetrabili giungle della Bolivia e del Brasile. Ma aveva anche un’altra motivazione per recarsi nel Mato Grosso, nella parte sud-occidentale del Brasile. Nella città di Rio de Janeiro, infatti, aveva rintracciato un documento in lingua portoghese, scritto da un uomo di nome Francisco Raposo, il quale nel 1743 si era avventurato nel cuore della giungla alla ricerca delle favolose ma perdute miniere di Muribeca (Muribeca era il figlio di un avventuriero portoghese e di una donna indigena). Stando al manoscritto (citato nel libro di Fawcett, uscito postumo, intitolato Exploration Fawcett) Raposo aveva scoperto le rovine di un’antica città, distrutta in apparenza da terremoti e disastri naturali dove «spiccavano qua e là grandi colonne abbattute e giganteschi blocchi di
pietra che potevano pesare cinquanta tonnellate e oltre». Trascorso qualche tempo presso le rovine, Raposo e i suoi compagni avevano fatto ritorno a Bahia, dove si erano affrettati a raccontare la loro avventura al viceré che si era limitato a prenderne nota.
E così quando nel 1924 Fawcett, dopo mille travagli e frustrazioni, aveva potuto finalmente raggiungere quei luoghi, tre erano gli obiettivi che aveva in mente di concretizzare: la ricerca delle miniere di Muribeca, la città perduta di Raposo e i resti di Atlantide, testimoniati dall’idolo di basalto che già possedeva. Accompagnato dal fratello Jack e dal fido amico Raleigh Rimell, Fawcett aveva dunque guadagnato il campo di Cavallo Morto nel bacino dello Xingu, dove scattò quelle che sarebbero rimaste le ultime fotografie dei suoi compagni. Il 29 maggio dello stesso anno, scrisse l’ultima lettera alla moglie. Dopo di che i tre uomini scomparvero nel nulla. Nel 1932 un esploratore svizzero di nome Rattin riferì di aver incontrato Fawcett, prigioniero presso una tribù di indiani. Lo stesso Rattin era tornato in Brasile per andare a recuperare il “colonnello bianco”, ma pure lui non aveva mai più fatto ritorno.
Molte altre furono le voci che continuarono ad accavallarsi da parte di esploratori e missionari sul conto del povero colonnello; ma nel 1951 il giallo venne definitivamente chiarito, quando Izarari, il supremo capo della tribù dei Kalapalos, confessò sul letto di morte di essere stato lui a uccidere i ricercatori bianchi. Rivelò che avendogli rifiutato aiuto, Fawcett lo aveva schiaffeggiato davanti a tutti e che lui lo aveva colpito uccidendolo, dopo di che non aveva risparmiato neppure i suoi due compagni, quando questi avevano reagito. Izarari aggiunse inoltre che Jack Fawcett si era accompagnato a una delle sue mogli e il testimone brasiliano che aveva poi raccontato il fatto aveva confermato la cosa rivelando che il figlio più grande del capo sembrava essere un sangue misto per metà bianco.
Malgrado queste confessioni, un gruppo di ricercatori esperti, che recatisi sul posto avevano riesumato i miseri resti dell’uomo che si diceva fossero quelli di Fawcett, sconfessarono ogni cosa: non si trattava del colonnello e così il mistero della sua scomparsa continuò a restare tale. A questo punto qualcuno arrivò a sostenere che Fawcett aveva trovato la città abbandonata e che aveva deciso di vivere laggiù dando l’addio al mondo civile…
Ma torniamo ad Atlantide. Molti studiosi preferiscono immaginare si trovasse dall’altra parte dell’oceano Atlantico. Nel 1905 un gruppo di archeologi tedeschi fra cui Schulten, Herman, Jessen e Henning annunciò di
essere sulle tracce di un’altra città perduta chiamata Tartesso, sulla costa atlantica della Spagna nei pressi della foce del fiume Guadalquivir, conquistata dai Cartaginesi attorno al 553 a.C. Erano convinti che Tartesso fosse l’Atlantide di Platone. Un’altra archeologa, Elena Maria Whishaw – spesi oltre 25 anni di ricerche nell’area attorno all’antica fortezza di Niebla – dopo aver portato alla luce importanti resti in pietra e, soprattutto, uno straordinario reticolo idraulico di alta ingegneria con lo sfruttamento delle acque del Rio Tinto, giunse alla conclusione che il territorio dell’odierna Andalusia un tempo era stato colonizzato da genti scampate alla grande catastrofe di Atlantide. L’ipotesi spiega e dà titolo al suo libro Atlantis in Andalusia (1930).
A partire dagli anni Trenta un’altra ipotesi ancora a proposito di Atlantide incominciò a conquistare la fantasia di milioni di appassionati. Si trattava della teoria proposta da un ingegnere minerario viennese di nome Hans Hoerbiger (1860-1931). Uno dei figli di Hoerbiger aveva la passione per l’astronomia. Una sera, mentre insieme col padre stava osservando la Luna e i pianeti con il suo telescopio, Hoerbiger venne folgorato da un’idea: se quei corpi celesti avevano il potere di riflettere la luce del Sole significava che erano ricoperti di ghiaccio.
Poi disse di aver osservato ampie zone planetarie sature di acqua caratterizzate da sbuffi di vapore e cascate di metallo fuso. Davanti a questi spettacoli Hoerbiger immaginò di stare osservando le primordiali forze esplosive dell’universo. Formulò così l’ipotesi che lo spazio cosmico è soprattutto ricco di ossigeno e idrogeno, per quanto in uno stato estremamente rarefatto (cosa certamente vera per l’idrogeno!).
Questa miscela si condensa sotto forma di blocchi di ghiaccio e quando queste immense palle precipitano, nel cuore di una stella calda si verifica una formidabile esplosione, del tutto simile a quella da cui è nato il nostro sistema solare. Secondo Hoerbiger la maggior parte dei pianeti sarebbero coperti da uno spesso strato di ghiaccio; l’attuale Luna, tanto per fare un esempio, ne avrebbe avuto uno di oltre 200 km. È necessario precisare l’attuale Luna perché a suo dire essa sarebbe addirittura la sesta. Il movimento naturale di tutti i corpi planetari ha un andamento spiraliforme con una progressione in direzione del Sole, secondo un movimento simile a quello di una puntina di grammofono che scivola verso l’interno del disco. Gli oggetti più piccoli sono più veloci dei grandi e così accade che quando vengono a orbitare attorno a una massa più consistente ne vengono immancabilmente attratti, trasformandosi in lune e satelliti. Circa 250
milioni di anni or sono la Terra vantava una Luna diversa, una cometa “catturata” dalla gravità del pianeta. Nel periodo in cui questo corpo celeste si era avvicinato al nostro pianeta, gli oceani avevano ricoperto le terre emerse con una spaventevole massa d’acqua e le poche che erano rimaste asciutte si erano rivestite di una spessa coltre di ghiaccio. Gli uomini erano stati costretti a guadagnarsi un rifugio sulle cime dei monti più alti, come quelli d’Etiopia e Perú. (A proposito di questo affascinante paese, c’è da ricordare che il colonnello Fawcett era convinto che Tiahuanaco, nelle Ande peruviane, fosse stata la culla di una antica quanto misteriosa civiltà).
La gravità più leggera di queste alture, col trascorrere del tempo aveva consentito agli esseri umani di crescere e diventare giganti: quegli stessi che vengono menzionati nella Bibbia dove si ricorda che «vi erano giganti sulla Terra». Alla fine, quando la Luna era esplosa, la Terra era stata flagellata da diluvi e alluvioni ciclopiche, diluvi, come quello descritto nella Bibbia e nei tanti altri testi sacri dell’umanità. Gli sconvolgimenti epocali causati dalla precipitazione della precedente Luna sulla Terra avevano sconvolto il pianeta e provocato la disintegrazione di mondi e continenti come Lemuria e Atlantide.
Hoerbiger morì nel 1931, ma il suo lavoro venne immediatamente ripreso da un discepolo fervente, Hans Schindler Bellamy, un austriaco il cui libro Moon, Myths and Man – edito proprio nell’anno in cui moriva Hoerbiger – raccolse migliaia di adepti in Inghilterra e America. Fra i convinti assertori delle teorie hoerbigeriane c’era anche Hitler, il quale propose la realizzazione di un grande osservatorio astronomico da dedicare ai tre più grandi scrutatori del cielo di ogni tempo: Tolomeo, Copernico e, per l’appunto, Hoerbiger. Si dice che la fede nelle ipotesi di Hoerbiger sia costata la guerra a Hitler. Nel 1941-42, infatti, il centro tedesco di riferimento e studio della climatologia, che si fondava sulle osservazioni di Hoerbiger, previde che l’inverno a venire sarebbe stato mite. A seguito di questa previsione, completamente sbagliata, Hitler aveva spedito le sue truppe in Russia, equipaggiate con le tenute estive… Hoerbiger ha comunque continuato a riscuotere successo fino a tutti gli anni Sessanta, quando finalmente le rivelazioni ottenute tramite l’esplorazione spaziale rivelarono che immaginare lune e pianeti ricoperti di spessi strati di ghiaccio era una concezione del tutto errata.
Ma il vero problema al cospetto di libri stravaganti come Glacial Cosmogony (1913) di Hoerbiger sta nel fatto che, malgrado i tanti assunti
errati, contengono lo stesso non poche verità. È senz’altro il caso del formidabile best-seller degli anni Cinquanta Mondi in collisione di Immanuel Velikovsky, un ebreo russo nato nel 1895. Fortemente impressionato dall’opera di Freud Mosè e il monoteismo, Velikovsky sosteneva non solo che Mosè non era ebreo bensì egiziano, ma anche che era uno dei grandi sacerdoti del “monoteistico culto solare” del faraone Akehnaton, il quale, a sua volta, aveva origini greche e altri non era che il sovrano ellenico Edipo. Nel 1939, anno in cui si trasferì dalla Palestina negli Stati Uniti, Velikovsky era fortemente attratto, ma anche angosciato, dalle teorie di Hoerbiger, al punto che decise che le avrebbe contrastate. Volgendosi verso altre ipotesi si imbatté in quella di W. Whiston, successore di Newton alla cattedra di Cambridge, il quale sosteneva che la cometa che era transitata nel 1680 nei pressi della Terra era stato lo stesso corpo celeste che nel precedente suo passaggio aveva provocato il diluvio biblico. Ma anche Donnelly plasmò la sua fantasia.
Specie con il libro Ragnarok, The Age of Fire and Ice – uscito dopo quello dedicato ad Atlantide – dove l’autore affermava che lo strato di polvere, detriti, rocce, sabbia e argilla steso in modo costante per quanto irregolare su tutta la superficie del nostro pianeta era venuto a crearsi come risultato della tremenda esplosione scaturita dall’impatto della Terra con una cometa errante. Whiston e Donnelly furono i fari ispiratori del libro che frattanto Velikovsky aveva finalmente preparato – il già citato Mondi in collisione (vedi il Capitolo 52) – in cui si immagina che sia stato proprio l’impatto con una cometa a determinare la fine di Atlantide e che la stessa ragione possa dare giustificazione alle numerose catastrofi narrate nella Bibbia.
Un’altra ipotesi su Atlantide – questa volta decisamente più credibile – è stata proposta verso la fine degli anni Sessanta da un archeologo greco, il professor Angelos Galanopoulos, sulla scorta delle scoperte fatte dal professor Spyrydon Marinatos a proposito dell’isola di Santorini nel mare Mediterraneo. Questi sosteneva che nel 1500 a.C. una terribile esplosione vulcanica aveva distrutto Santorini e quasi certamente cancellato la gran maggioranza delle civiltà sorte nelle isole greche, nella parte costiera della stessa Grecia e nell’isola di Creta. Secondo Galanopoulos questa stessa catastrofe avrebbe distrutto anche Atlantide. Ma come mettere d’accordo le datazioni, dal momento che la distruzione sarebbe avvenuta solo 900 anni prima di Solone e non 9000 come invece narrato? Galanopoulos afferma che, molto semplicemente, ci troveremmo di fronte a un errore di
trascrizione da parte di uno scriba, il quale inavvertitamente avrebbe aggiunto uno zero mentre trascriveva la data relativa alla scomparsa del continente atlantideo. D’altra parte, a suo avviso, tutte le misure segnalate nei testi di Platone sembrano eccessive. I 10.000 stadi (la bellezza di quasi 2000 km) del grande canale posto attorno alla capitale di Atlantide sembrano davvero troppi, visto che cingerebbero una zona tanto grande da ospitare venti volte almeno l’estensione della città di Londra. Ma anche la larghezza (90 m) e la profondità (oltre 30 m) del canale sembrano sospette, visto che 9 e 3 parrebbero misure decisamente più ragionevoli. Infine, anche le dimensioni della grande piana che si estendeva appena al di fuori della città rientrerebbero in una logica più accettabile se invece di 230 per 340 miglia antiche fossero ridotte a 23 per 34.
Qualora si accetti questo drastico ridimensionamento, ecco che allora l’isola di Santorini potrebbe davvero corrispondere a Atlantide, sebbene lo stesso Galanopoulos sia il primo ad ammettere che certamente la potente civiltà atlantidea aveva sottomesso tutto il Mediterraneo, avendo in Creta la città della regalità sovrana. Viene da chiedersi: ma come poté mai consumarsi un simile grossolano errore? Galanopoulos ha la risposta pronta: gli scribi greci mal intesero il simbolo egiziano che indicava 100 – una corda arrotolata – scambiandolo per il simbolo che valeva 1000, un fiore di loto.
Il ragionamento potrebbe anche filare, ma si scontra con un’obiezione pressoché insormontabile: Platone afferma che Atlantide stava al di là delle Colonne d’Ercole. Ma anche davanti a questo il ricercatore greco non demorde. La mitologia attesta che Ercole compì tutte le sue imprese nel contesto del Peloponneso e che, dunque, le Colonne d’Ercole potrebbero benissimo corrispondere ai due estremi promontori meridionali della penisola greca, i capi Matapan e Maleas.
Però Platone precisa ancora: «Essi [gli Atlantidei] si sparpagliarono al di là delle Colonne, in paesi come l’Egitto e la Tirrenia». E, per quanto ci si sforzi, non c’è alcuna possibilità di ricollocare Egitto e Tirrenia (Toscana) fra i promontori della Grecia. E così anche questa ipotesi, per quanto affascinante, non regge sotto il peso delle testimonianze storiche. Ciò non toglie che l’idea di Galanopoulos, che Santorini sia stata Atlantide, abbia conquistato migliaia di appassionati e, soprattutto, spinto altrettanti turisti a visitare l’isola, incrementando in modo certamente interessante i suoi proventi economici…
Nel 1975 un simposio tenutosi presso l’Università dell’Indiana aveva come titolo: Atlantide, realtà o mito?. Un gran numero di esperti disse la
sua e alla fine giunsero alla conclusione che si trattava di un’invenzione letteraria. In effetti, se solo si fa eccezione per quelle che son dette le evidenze “culturali” proposte da Donnelly, Spence e Whishaw, non esiste una sola prova che possa smentire questo asserto. E se anche il tipo di prova che convinse il colonnello Fawcett, vale a dire la testimonianza psichica dello psicometra, non è ovviamente accettata dalla scienza ufficiale, rappresentata da geologi, archeologi e storici, questo non toglie che essa sappia esercitare sulla fantasia, ma anche sulla razionalità di chi indaga, una formidabile attrattiva, ricca com’è di straordinario fascino. Come faceva lo psicometria di Fawcett a immaginare l’esistenza di Atlantide?
Volendo dare credito a questa attestazione, dovremmo avere molte più informazioni sul medium, sapere per esempio se aveva letto o anche solo sentito parlare dei lavori di Donnelly e Spence. Poi, pur ammettendo che la sua immaginazione psichica non lo stesse ingannando, resta sempre la possibilità, niente affatto remota, che fosse in grado di leggere nella mente del colonnello tramite un processo di telepatia. È evidente che chi la pensa in altro modo, chi intendesse affrontare lo studio della psicometria con mente aperta, potrebbe arrivare a una conclusione meno critica e affermare che, dopo tutto, non è detto che ogni conoscenza, vera o falsa che sia, debba per forza potersi spiegare per il tramite della trasmissione telepatica o della mistificazione.
Analoghi dubbi sono sorti a proposito delle dettagliate descrizioni prodotte sulla civiltà di Atlantide da parte del medium americano Edgar Cayce, un celebre “guaritore psichico”. Quando Cayce aveva 22 anni (nel 1899) aveva sofferto per una forma acuta di paralisi delle corde vocali, che era stata guarita grazie a terapie ipnotiche. Nel corso di queste sedute il terapeuta aveva chiesto a Cayce come si sentisse e il giovane, sfoderando conoscenze mediche particolari e approfondite che in stato cosciente non aveva mai manifestato, elaborò un’autodiagnosi pressoché perfetta.
Questa straordinaria capacità di diagnosticare per via medianica lo rese ben presto famoso. Nel 1923 gli venne chiesto se, a suo parere, c’era vita dopo la morte. Uscito dalla trance egli stesso si meravigliò per ciò che aveva detto, parlando della dottrina della reincarnazione, una teoria religiosa che un ortodosso come lui non aveva mai condiviso. Nel 1927, durante una “lettura psichica” su un ragazzo di 14 anni, rivelò che il giovane nelle sue precedenti esistenze era vissuto sotto il re francese Luigi XIV, Alessandro il Grande, nell’antico Egitto e ad Atlantide. Da questo momento in poi Cayce
continuò sempre, per il resto della sua vita di medium, ad aggiungere frammenti di ricordi sulla questione atlantidea.
Secondo Cayce, Atlantide si spingeva dal Mar dei Sargassi alle Isole Azzorre, per un’estensione simile a quella dell’Europa. Il continente era andato incontro a due momenti di distruzione. Nel primo era stato frammentato in isole. Nel secondo, il ricordo di Platone da lui datato attorno al 10.000 a.C., tutto era stato annientato e solo le attuali Isole Bahamas erano scampate alla furia delle acque. Quello che Cayce racconta, riecheggia in modo impressionante nella testimonianza di Steiner: «…l’umanità corrotta si autodistrusse provocando la catastrofe finale nel risvegliare le forze primordiali assopite della Terra…». Per Cayce nel mondo esistono ancora tre archivi dell’antica Atlantide. Uno si troverebbe in Egitto. Nel 1940 Cayce predisse che l’isola di Poseida sarebbe nuovamente riemersa «tra il ’68 e il ’69» e il fenomeno si sarebbe manifestato proprio al largo delle Bahamas.
All’inizio del 1968 un pescatore noto col nome di Bonefish Sam segnalò all’archeologo dottor J. Manson Valentine una strada sottomarina di lastre in pietra rettangolari a nord delle Bimini, nell’arcipelago delle Bahamas. Valentine rimase strabiliato nello scoprire due linee parallele, lunghe più di 6 km, composte da pietre regolari, da quel momento in avanti conosciute come la Strada di Bimini.
Si gridò alla grande scoperta, ma sin dal principio tutti gli scienziati storsero il naso. John Hall, professore di archeologia di Miami, disse che si trattava di semplici formazioni naturali; secondo John Gifford, biologo marino, le lastre di pietre erano state provocate da “stress geologici”, per quanto in un secondo momento, quando le lastre vennero scoperte anche in altre località sottomarine della zona, giunse a riconoscere che «non esisteva alcuna prova che quelle formazioni non potessero essere opera dell’uomo».
Uno dei ricercatori, il dottor David Zink, pubblicò un libro dal titolo The Stones of Atlantis, affermando che ormai non c’erano più dubbi sul fatto che almeno in parte quelle formazioni erano opera dell’uomo, visto che era stata individuata una pietra che raffigurava, senza ombra di dubbio, una testa umana. Tuttavia, pur ammettendo che le rovine di Bimini siano i resti di qualche antico tempio, questo non prova che esso risalga a 10.000 anni or sono, dal momento che potrebbe benissimo essere il prodotto di una cultura più recente.
Come sappiamo, la profezia della risalita di Atlantide non si è avverata. A dispetto di quello che possono dire gli scettici, la cosa non prova affatto che la predizione sia scaturita come un puro frutto di immaginazione, dal momento che i parapsicologi hanno ormai appurato come nei fenomeni precognitivi la scala del tempo viene raramente centrata. Attesta però un’altra questione, vale a dire che Cayce, al pari di altri scrittori sensitivi come lui, quali Scott-Elliott, Steiner e Madame Blavatsky debbono essere considerati con grande cautela, per dirla in breve, vanno presi con le molle.
Fra le infinite ipotesi legate alla distruzione di Atlantide, ne esiste una relativamente recente che gode di buona credibilità. È quella proposta dal geologo inglese Ralph Franklin Walworth. Il suo libro, dal titolo Subdue the Earth, sfiora soltanto di striscio la questione di Atlantide, perché è dedicato quasi per intero all’enigma delle ere glaciali. Un mistero che malgrado tanti sforzi nessuno è ancora riuscito a spiegare: perché, a intervalli più o meno regolari, vaste zone del nostro pianeta si sono ricoperte di immensi strati di ghiaccio? Nel suo libro African Genesis, Robert Ardrey riporta tutte le varie ipotesi elaborate in merito. Il concetto di un “polo nord vagante” non è certo in grado di spiegare come il ghiaccio abbia potuto estendersi fino all’Africa.
Il passaggio ravvicinato di una cometa non spiega il perché del ritorno delle glaciazioni e per di più secondo ritmi irregolari (ricordiamo che una cometa si ripresenta alla nostra osservazione nel rispetto di lassi di tempo prestabiliti). Un’altra teoria arriva da uno studioso jugoslavo, M. Milankovitch, il quale afferma che il nostro pianeta è periodicamente soggetto a molteplici variazioni cicliche dei fenomeni atmosferici, le quali quando, per casualità, vengono a sommarsi fra loro in coincidenza, danno origine a un’era glaciale. Ma anche per questo caso Ardrey trova da obiettare, affermando che la teoria delle variazioni simultanee non può lo stesso spiegare la conformazione di milioni di metri cubi di ghiaccio.
Secondo Sir George Simpson un’era glaciale viene paradossalmente innescata da un aumento della temperatura solare, che in quota provoca una maggiore precipitazione piovosa con un conseguente aumento delle nevicate. Questo fenomeno, dando origine a depositi di ghiaccio sempre più spessi e quindi inattaccabili anche dal calore estivo, dà il via all’era glaciale. Ma, ammesso che l’idea di Simpson sia corretta, i mari dovrebbero trasformarsi in bacini raccoglitori ancora più caldi di energia termica, fatto confermato dallo studio dei depositi marini del Pleistocene, il periodo della più vasta riconosciuta era glaciale, che conferma come anche in questi
momenti la temperatura fosse variata soltanto di pochi gradi. Passate in rassegna tutte le ipotesi, Ardrey propone la sua. Secondo lui, ad intervalli periodici, la Terra nel suo viaggio nello spazio cosmico, transita attraverso immense nuvole di gas intergalattico. In questi frangenti il campo magnetico planetario attira una grande massa di polveri e gas in grado di annebbiare la luce del Sole. L’idea è buona, ma lo stesso suo propositore non riesce a spiegare coma mai le ere glaciali non avvengano seguendo cadenze prestabilite e quindi prevedibili…
Walworth prova a risolvere alcuni problemi fra quelli già sottolineati da Donnelly e Velikovsky e in particolare i grandi sconvolgimenti che hanno sepolto intere foreste. A suo dire, la maggior parte dei geologi ha un atteggiamento troppo uniforme e monolitico, quando prospetta che la Terra si sia evoluta lentamente attraverso lunghissime ere temporali e che le immani catastrofi (inondazioni, terremoti e così via) suggerite e immaginate dagli scienziati del XVIII secolo, quando ancora si credeva che il pianeta vantasse una storia lunga solo qualche decina di migliaia di anni, non possono certo dare giustificazione dell’evoluzione terrestre. Allo scopo di essere più chiaro Walworth, ribadendo il fatto che non ci sono dubbi che la Terra sia stata sconvolta da radicali e repentine catastrofi, pone alcune domande elementari. Per esempio, come si possono giustificare i fossili? La spiegazione tradizionale sostiene che il fossile di un animale si forma poiché il cadavere si solidifica, una volta completamente sepolto in uno strato di fango protettivo che lo preserva.
Ma, osserva Walworth, quando un animale muore il suo corpo decade rapidamente o viene divorato dai predatori e quand’anche si depositasse su di esso uno strato di fanghiglia questa non lo preserverebbe e non ne impedirebbe la decomposizione. A suo avviso, invece, un fossile nasce in modo repentino, sepolto dalla polvere e dai detriti di una improvvisa eruzione vulcanica. In questo quadro anche le ere glaciali possono essere spiegate come prodotto della emissione nell’atmosfera terrestre di una enorme massa di gas, polveri, magma e detriti scagliati altissimi nello spazio. Tutto questo materiale nel momento in cui precipita sulla superficie del pianeta si raffredda trasformandosi in un “gelido gas letale”, in grado non solo di estinguere la vita su territori immensi, ma anche di congelare pressoché all’istante esseri di grandi dimensioni come erano i mammuth. Per Walworth sono dunque le proiezioni vulcaniche nell’atmosfera ad aver provocato le ere glaciali. Le precipitazioni nevose, grandemente aumentate, coprono la superficie mentre
gli oceani si svuotano. «Analisi del fondo sottomarino indicano in modo chiaro che i livelli delle acque si sono mantenuti per moltissimo tempo per centinaia di metri al di sotto di quelli odierni». In questi momenti, le comunità umane non possono fare a meno di spingersi verso le coste marine, dove la temperatura è sempre di qualche grado più benevola che non nelle regioni dell’entroterra. I grandi ghiacciai, intanto, sollevano i detriti e il magma vulcanico a grandi altitudini, dando poco alla volta concretezza a formazioni montane, ma anche a quegli strati geologici misteriosi che tanto avevano affascinato e incuriosito Donnelly.
Poi, mano a mano che l’era glaciale si ritira e il ghiaccio si scioglie e il livello degli oceani risale, le comunità sono costrette a guadagnare nuovamente insediamenti posti all’interno rispetto alla costa e situati a quote più elevate, al fine di evitare la sistematica distruzione delle loro città da parte della furia sempre più crescente delle acque. Alcuni gruppi si spingono in altitudine, come per esempio quello che darà origine alla civiltà di Tiahuanaco. Ecco in che modo molte fra le grandi civiltà costiere del passato sono andate incontro alla loro fine definitiva…
Ma, viene da chiedersi, se tutto questo è vero, perché queste esplosioni catastrofiche e tremende non avvengono più ai nostri giorni? Non è del tutto esatto. Basta pensare a quanto è accaduto nel 1883 a Krakatoa, quando il vulcano dell’isola è esploso facendola saltare e provocando gigantesche ondate nell’oceano Pacifico, mentre vapori e ceneri si innalzavano fino a oltre 120 km nell’atmosfera.
In ultimo, Walworth segnala ciò che accade sul pianeta Giove, che ogni 10 anni si scatena in manifestazioni esplosive terrificanti, legate, a suo dire, a poderosi fenomeni di elettromagnetismo: «Flussi e correnti turbinose indotte dal movimento del grande pianeta attraverso il vento solare elettrificato, capaci di surriscaldarne in modo impensabile la superficie». Trasferendo questa ipotesi alla Terra, consideratene le dimensioni decisamente più modeste, questo stesso meccanismo potrebbe funzionare anche col nostro pianeta, provocando eruzioni e sconvolgimenti a intervalli stabiliti, quelli coincidenti col manifestarsi delle ere glaciali.
Ma al di là di tutto, la parte della teoria di Walworth più contestata è la sua convinzione che il nucleo interno della Terra non sia affatto una massa fluida contenente ferro, come ritengono i geologi. Infatti, se l’attività vulcanica è innescata dall’azione del “vento solare elettrificato” che agisce sul campo magnetico terrestre inducendo forti sollecitazioni sulla
superficie, viene da immaginare che il cuore del nostro pianeta sia relativamente freddo e solido. Un giorno, quando la tecnologia riuscirà a mettere a punto trivelle perforatrici capaci di spingersi sempre più in profondità, Walworth è sicuro che questa ipotesi troverà finalmente una conferma scientifica. Chissà, viene da commentare. Considerando la questione dalla parte dell’umanità resta da augurarsi che Walworth sia in errore, perché, stando alle sue previsioni, nel millennio in cui ci stiamo inoltrando la Terra verrebbe investita da altre eruzioni catastrofiche alle quali, come da teoria, seguirebbero ere glaciali, venendosi a ricreare quelle stesse, identiche condizioni cosmico-planetarie che condussero alla distruzione di Atlantide.

This work is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International License.
Ultimi post di William Rupzo (vedi tutti)
- Il Mistero di Atlantide - Febbraio 12, 2022
- Misteri Irrisolti - Febbraio 11, 2022
Lascia un commento